Nella prima categoria rientrano, quasi esclusivamente, gli Stati Uniti e, in misura minore, lo Stato di Israele: i soli in grado di poter scaricare sul sistema internazionale (o su un generoso protettore) i costi della guerra.
Evidentemente non mi riferisco ai “costi vivi” (quasi un paradosso, considerando che la guerra produce di necessità morte e distruzione), ma soprattutto ai costi politici, in termini di “rispettabilità” e responsabilità di un Paese che assuma la grave decisione di fare ricorso alle armi per far valere le proprie ragioni.
La legittimità è insomma un asset decisivo, e il suo reciproco sconta un prezzo molto pesante e ben difficilmente calcolabile, persino ex post. Nella seconda categoria rientrano i vari al Baghdadi, mullah Omar, Abubakar Shekau (il leader di Boko Haram) e gentaglia simile, che in maniera diversissima possono egualmente scaricare su altri (in questo caso i loro disgraziatissimi “sudditi”) il costo della violenza inflitta e subita.
Non risulta che la Russia di Putin appartenga a nessuna di queste due categorie. Per quanto lo zar Vladimir I si comporti come un hooligan della politica internazionale e dimostri di essere un bugiardo professionale come non se ne vedevano in Europa dagli anni Trenta del secolo scorso, Putin resta il rappresentante di uno Stato che è parte integrante della società internazionale contemporanea, l’erede impoverito della superpotenza uscita sconfitta dalla Guerra fredda.
La Russia di oggi, diversamente dall’Unione Sovietica, è totalmente integrata nel sistema internazionale, in particolar modo in quello economico e finanziario: come è attestato dalla fuga di capitali (151,5 miliardi di $ nel corso del 2013), dall’ammontare degli Ide (95 miliardi di $ nel 2013), dal costo delle sanzioni (-4/5% di Pil previsto per il 2015, con un’inflazione al 15% e un servizio del debito pubblico al 15,4%) e dalla sofferenza per il crollo del prezzo del greggio (passato in pochi mesi da oltre 100 $ al barile a meno di 50).
Lo sono i suoi Paperoni, tutti ormai legati al carro di Putin, e contemporaneamente presenti nelle principali borse mondiali. Ma lo è anche l’establishment del presidente russo, il suo “cerchio magico”: a cominciare da quel vicepremier, Igor Shuvalov, pronto a ricordare la straordinaria capacità del popolo russo di sopportare gravose rinunce – «mangeremo di meno, useremo meno elettricità» – pur di sostenere la sua leadership contro «la pressione degli stranieri», eppure titolare di lussuose residenze a Londra e in Austria…Sempre diversamente dalla vecchia Urss, la Russia odierna non è neppure un giocatore così forte da potersi permettere di imporre la propria politica al mondo: nessuna replica di Budapest 1956 o di Praga 1968 può essere vagheggiata dagli strateghi del Cremlino senza mettere in preventivo un salatissimo conto sia in termini strettamente economico-finanziari sia in termini politici.
Tant’è vero che Mosca, fin qui, ha dovuto far ricorso a menzogne e sotterfugi per inviare armi e rinforzi ai ribelli da lei sobillati e protetti, mentre la carta di un intervento alla luce del sole resta difficile da impiegare: tanto risolutiva nei confronti di Kiev quanto suicida nei confronti dell’Occidente a cui la Russia è legata, che le piaccia o meno. Quindi il Cremlino fa la voce grossa, ma persino di fronte all’ipotesi americana di mettere il legittimo governo di Kiev nelle condizioni di difendere per lo meno lo status quo (rifornendo di armi il suo esercito), Mosca dovrebbe valutare con molta attenzione i rischi e i costi di un’escalation.
Gli europei dal canto loro replicano gli errori della guerra civile in Bosnia: «Nessun aiuto militare», «non esistono alternative alla soluzione diplomatica». Allora, negli anni 90 l’embargo verso le legittime autorità bosniache consentì alle milizie serbe (tranquillamente rifornite da Belgrado) di conseguire un vantaggio enorme, prolungando la guerra civile. Oggi rischia di portare al riconoscimento di fatto della secessione (con prevedibile annessione alla Russia) delle province ribelli.
Esattamente sulla falsariga di quanto è avvenuto in Crimea e con conseguenze imprevedibili sul futuro. Intanto da Madrid fanno sapere come le sanzioni siano costate ai Paesi Ue 21 miliardi di dollari. L’economia che ne ha patito il maggior danno proporzionale è quella della piccola Lettonia, repubblica baltica ex sovietica, con 52 milioni di $ di mancate esportazioni e una contrazione del Pil pari allo 0,25%: che invece chiede un inasprimento delle misure contro Mosca, ricordandoci sobriamente che «la libertà ha un costo».