Mozart: Compositore nato a Salisburgo nel 1756, figlio del violinista Leopold e di Anna Maria Pertl, mostra fin da piccolo la sua predisposizione alla musica, così come la sorella Anna.
Entrambi esprimono una tale e indiscutibile attitudine per le sette note, da indurre il padre a rinunciare a qualsiasi impegno professionale per dedicarsi a insegnare musica esclusivamente ai figli. A quattro anni suona il violino e il cembalo, ed è ormai assodato che la sua prima composizione risale a qualcosa come solo due anni dopo. Conscio delle doti straordinarie del figlio, il padre porta Wolfang e la sorella, soprannominata Nannerl, in viaggio per l’Europa dove entrambi hanno modo di esibirsi nei salotti ma, soprattutto, di venire a contatto con i fermenti artistici che circolano in Europa.
L’infanzia di Mozart è un crescendo di episodi sbalorditivi. Ne è un esempio un aneddoto riportato da Stendhal: “Mozart padre tornava un giorno dalla chiesa in compagnia di un amico; a casa trovò suo figlio impegnato a scrivere musica. “Che stai facendo, figliolo?”, gli chiese. “Compongo un concerto per clavicembalo. Ho quasi finito il primo tempo.” “Vediamo un po’ questo scarabocchio.” “No, vi prego; non ho ancora finito”. Ciononostante il padre prese il foglio e mostrò al suo amico un groviglio di note che si riuscivano a stento a decifrare a causa delle macchie d’inchiostro.
A tutta prima i due amici risero bonariamente di quello sgorbio; ma ben presto, dopo che Mozart padre lo ebbe osservato con un po’ di attenzione, i suoi occhi rimasero a lungo fissi sulla carta, e alla fine si riempirono di lacrime d’ammirazione e di gioia. “Guardate, amico mio”, disse commosso e sorridente, “come è tutto composto secondo le regole; è un vero peccato che questo brano non si possa eseguire: è troppo difficile e nessuno potrà mai suonarlo”. Seguono gli studi a Salisburgo nel corso dei quali Amadeus compone la “Finta semplice”, piccolo capolavoro teatrale di una mente che proprio nel teatro partorirà in età adulta le massime espressioni del genere.
I viaggi, ad ogni modo, proseguono instancabili, tanto che finiranno per minare la sua già fragile salute. Bisogna infatti considerare, in primo luogo, che i viaggi dell’epoca si svolgevano su umide e pericolanti carrozze, che percorrevano fra l’altro strade dissestate e precarie. Celebri, ad ogni modo, molti dei suoi pellegrinaggi e in particolare le sue “visite” italiane. A Bologna conosce padre Martini, mentre a Milano si avvicina alle composizioni di Sammartini.
A Roma, invece, ascolta le polifonie ecclesiastiche, mentre a Napoli prende coscienza dello stile diffuso in Europa. In questo periodo fa allestire con successo “Mitridate, re di Ponto” e “L’Ascanio in Alba”. Finita l’esperienza italiana, torna a Salisburgo e precisamente al servizio dell’iroso arcivescovo Colloredo.
Quest’ultimo, oltre ad essere sostanzialmente poco interessato alla musica non è affatto ben disposto nei confronti del compositore, tanto che, paradossalmente, lo lascia spesso viaggiare piuttosto che commissionargli nuove opere o approfittare del suo genio per sentirlo suonare. Viaggia dunque verso Parigi insieme alla madre (che muore proprio in quella città), toccando Manheim, Strasburgo e Monaco e scontrandosi per la prima volta con insuccessi professionali e sentimentali.
Deluso, torna a Salisburgo. Qui compone la bellissima “Messa dell’Incoronazione K 317” e l’opera “Idomeneo, re di Creta”, molto ricca dal punto di vista del linguaggio e delle soluzioni sonore. Sulla spinta del successo ottenuto, si libera dell’opprimente e antipatico arcivescovo Colloredo, dando inizio così ad una carriera di musicista autonomo, aiutato dalla proverbiale “pedata” dell’arcivescovo (uno degli episodi più umilianti della vita del genio salisburghese).
Si può dire che è proprio con Mozart che il ruolo del musicista nella società comincia a svincolarsi dal servilismo che l’aveva sempre caratterizzato, anche se questo processo sarà portato al massimo compimento, e definitivamente, da Beethoven. Non bisogna dimenticare, infatti, che all’epoca i compositori o i maestri di cappella, sedevano al tavolo insieme alla servitù ed erano perlopiù considerati dei semplici artigiani piuttosto che artisti nel senso moderno del termine.
Anche in questo caso, sarà Beethoven a “riabilitare” con forza la categoria. Grazie alla nuova carriera, insomma, si stabilisce insieme alla neo sposa Costanze a Vienna, città ricca di fermenti ma culturalmente assai conservatrice, anche se attraversata dalle menti più innovatrici, contraddizione che sembra appartenere alla sostanza di questa città. L’ultimo decennio della sua breve esistenza è per Mozart il più fecondo e foriero di immensi capolavori.
I contatti con impresari e i pochi agganci con l’aristocrazia (favoriti dal successo dell’opera buffa “Ratto dal serraglio”) gli permettono un’esistenza precaria ma dignitosa. Fondamentale è il suo incontro con il librettista Da Ponte che darà vita agli immortali capolavori teatrali conosciuti anche con il nome di “trilogia italiana” (chiamata in questo modo per via dei libretti appunto in lingua italiana), ossia “Le nozze di Figaro”, “Don Giovanni” e “Così fan tutte”. Successivamente, compone altre due opere per teatro, il “Flauto magico” (in realtà un “Singspiel”, ovvero un ibrido fra teatro cantato e recitato), considerato il momento di avvio del teatro tedesco e la “Clemenza di Tito”, in realtà un passo indietro stilistico di Mozart per venire incontro ai gusti retrivi del pubblico viennese, ancora legato ai soggetti storico-mitologici e incapace di apprezzare l’abissale scandaglio dei sentimenti erotico-amorosi affrontati nelle opere precedenti. Infine, non si può tralasciare di parlare del contributo mozartiano alla musica strumentale. Nel suo “Una storia della Musica” (Bur), Giordano Montecchi sostiene che “Mozart ha dato il più grande contributo alla storia della musica per i suoi concerti per pianoforte, se non altro perché in sua assenza gli altri generi, come la sinfonia e la musica da camera, sono state ben rappresentate anche da altri compositori con apporti ugualmente determinanti. Sarebbe stato, insomma, sostituito da qualche altro suo contemporaneo; non però nel campo dei concerti pianistici dove Mozart deve essere considerato come “Pigmalione supremo e insostituibile” (pagg. 298-299).
Il 5 dicembre del 1791, all’una di notte, si spegne all’età di soli 35 anni una delle più alte espressioni dell’arte (musicale ma non solo) di tutti i tempi. A causa delle avverse disponibilità economiche i suoi resti verranno tumulati in una fossa comune e mai più ritrovati.
Le cause della sua morte restano a tutt’oggi un rompicapo difficilmente risolvibile. Mozart a Praga Il mito della felicità praghese di Mozart, che nella città imperiale asburgica ormai germanizzata dopo i travagli della guerra dei Trent’anni fu onorato come non mai, si è certo alimentato del tono di certe biografie romanzesche e di novelle tardo romantiche come la pur godibilissima Il viaggio di Mozart a Praga di Eduard Mörike.
Ma c’è del vero. Colta, appassionata, estranea agli intrighi della capitale, la città boema aveva effettivamente corteggiato, amato, stimato il salisburghese come nessun’altra lui vivo.
E l’amore scoppiò quando una compagnia italiana decise di rappresentarvi le Nozze di Figaro nel dicembre 1786, riscuotendo un successo assai maggiore di quello di cui l’opera ispirata a Beaumarchais, complice anche uno sbadiglio dell’imperatore Giuseppe II, aveva goduto pochi mesi prima a Vienna. A Praga, riportano cronache locali e riferisce lo stesso Mozart, non si cantava che il Figaro, non si parlava che del Figaro, non si andava all’opera se non per ascoltare Figaro e nient’altro che Figaro. Fatto sta che, pressantemente invitato ad assistere a una recita, il musicista vi si recò per un mese, dall’8 gennaio all’8 febbraio del 1787, durante il quale assiste all’opera, ne dirige una recita, organizza una fortunatissima accademia a sottoscrizione che gli assicura un guadagno formidabile. Un trionfo, insomma, che se non è tale da togliergli il desiderio di tornare comunque presto a Vienna, è più che bastevole a fargli accettare, e di buon grado, la commissione d’un nuovo lavoro da rappresentarsi di lì a pochi mesi.
Per il libretto il pensiero corre subito a Da Ponte, naturalmente, cui tanta parte si deve della riuscita del Figaro. Il problema è che il tempo è poco e che il librettista veneto è già impegnato a scrivere L’arbore di Diana per Martin y Soler e Axur, re d’Ormus per Salieri: se ne preoccupa persino Giuseppe II, cui nel frattempo è giunta l’eco del successo praghese di Figaro.
E a lui Da Ponte rivolgerà la celebre affermazione: «scriverò di notte per Mozart e farò conto di leggere L’Inferno di Dante; scriverò la mattina per Martini (sic) e mi parrà di studiare il Petrarca; la sera per Salieri e sarà il mio Tasso». In cuor suo infatti il letterato aveva già deciso quale soggetto affidare a Mozart, prendendo spunto non «dall’alto», cioè scomodando Moliere o Tirso de Molina, ma «dal basso», ovvero ispirandosi a un recentissimo libretto che Giovanni Bertati aveva scritto per la musica di Giuseppe Gazzaniga.
Si trattava della Rappresentazione giocosa (tale il sottotitolo, trasformato da Da Ponte in Dramma giocoso) Don Giovanni Tenorio, o sia Il convitato di pietra ed era stato baciato dal successo a Venezia, quando fu rappresentato proprio all’inizio di quel 1787. Don Giovanni diventa Leporello (Scala/Brescia/Amisano)Peccato che le fonti non permettano di stabilire quanta parte ebbe Mozart nel processo di riscrittura del soggetto.
In ogni caso, se alcuni passi sono semplicemente parafrasati (valga per tutti l’Aria del catalogo di Leporello, che in Bertati si chiamava Pasquariello), diversi altri sono completamente nuovi, le maschere e alcuni personaggi minori cancellati (come il secondo servo Lanterna), e altri come Donn’Anna e Donna Elvira decisamente rafforzati.
Nasce comunque così l’idea di Don Giovanni: il tempo era poco (per Da Ponte ancor meno), Bertati e Gazzaniga avevano fatto centro e il soggetto, sia pure in forma di riduzioni spesso buffonesche, in quegli anni andava per la maggiore, come dimostrano le versioni di Gluck (1761) e di almeno altri cinque compositori minori attivi in Europa appunto tra gli anni Sessanta e Settanta del Settecento. Una cosa che nacque come un gioco ma che Mozart prese maledettamente sul serio.
Vi lavorò infatti con tanta solerzia da presentarsi a Praga il 1o ottobre, partitura alla mano, pronto per il debutto nel frattempo fissato per il 14 di quel mese e che slittò, per problemi contingenti, di due settimane. Arriva anche Da Ponte a dargli manforte («ad istruir gli attori», dice nelle Memorie) ma gli impegni con Martin Y Soler e con Salieri gli impediranno di assistere alla «prima», che va trionfalmente in scena la sera del 29 ottobre.
In compenso, assiste allo spettacolo quel Giacomo Casanova che a Praga, ormai vecchio, andava terminando la propria parabola umana lavorando come bibliotecario presso il castello di Dux, al servizio del conte Waldstein (quello cui Beethoven dedicherà la Sonata per pianoforte in do maggiore). In altre parole, l’opera sul mito di Don Giovanni venne consumata al cospetto dell’uomo che più di chiunque altro in quell’epoca ne aveva incarnato le gesta libertine.
Mozart ebbe un po’ a lamentarsi dei cantanti, ma apprezzò l’esecuzione musicale e la messinscena, affidata a quel Domenico Guardasoni che di lì a poco sarebbe stato scritturato come scenografo per il Teatro di corte della capitale. E a proposito di Vienna, l’eco del nuovo successo di Mozart a Praga, giunse presto alle orecchie di Giuseppe II, alla cui curiosità si deve il fatto che l’opera, debitamente ritoccata dagli autori, debuttasse pochi mesi dopo anche a Vienna, iniziando così il suo lungo e ininterrotto cammino verso l’immortalità.
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